C’è da sperare che l’editoriale sulla Sanità italiana, il primo dell’anno 2025 di The Lancet Regional Health – Europe, una delle riviste internazionali di medicina che fanno capo a The Lancet, non rappresenti solo motivo di polemica per alcuni politici della maggioranza. A cominciare dal ministro per gli Affari e le autonomie Calderoli, pugnace esponente della Lega e inesausto combattente per l’autonomia differenziata. Rispondendo ad un’interrogazione alla Camera, è partito all’attacco del più antico e autorevole giornale medico al mondo, colpevole di aver criticato la riforma con toni assai duri: «Se approvata, decentralizzerà ulteriormente la governance sanitaria, approfondendo la frammentazione e le disparità tra regioni invece di promuovere una raccolta e una condivisione armonizzate dei dati».
Quell’articolo andrebbe letto non solo dai decisori politici, ma da tutti coloro che, in ruoli di responsabilità, gravitano nel mondo della sanità, dal centro alla periferia, alla galassia di 20 sistemi regionali , 20 «repubbliche» che operano in autonomia e implementano politiche e tecnologie diverse, con sistemi di raccolta di dati incompatibili tra loro, tanto da ostacolare il trasferimento di referti e immagini diagnostiche, perfino nello stesso territorio. La puntuta critica dell’editoriale è anticipata dal titolo in cui campeggia il termine «broken», rotto o «frantumato», adatto a rappresentare la desolante realtà dell’infrastruttura dei dati sanitari nel Belpaese: non esiste un sistema unificato e centralizzato. L’insufficiente interoperabilità tra regioni e ospedali – che si aggiunge alla mancanza di sistemi di caricamento automatico dei dati nelle cliniche private – fa venir meno l’efficacia del Fascicolo Sanitario Elettronico (Fse), uno dei pilastri della Sanità digitale. Uno strumento che davvero può semplificare la vita di sani e malati, perché consente a ogni cittadino di tracciare e consultare la propria storia sanitaria, avendo a disposizione, sempre e ovunque, anche in caso di emergenza, la propria documentazione sanitaria, in forma digitale, facendo a meno dei documenti cartacei. Senza parlare della maggiore libertà nella scelta della cura e nella condivisione delle informazioni, disponibili, tramite l’accesso al Fse, da parte dei professionisti sanitari. Cosa che permette, tra l’altro, di evitare prestazioni inutili e analisi superflue, i cui costi gravano sul Ssn.
Al momento, però, l’implementazione di una rete di dati sanitari unificata in Italia è lontana, nonostante i recenti investimenti del Pnrr, denuncia l’editoriale di Lancet. Alcuni dati: nel 2022, l’Italia ha speso qualcosa come 1,8 miliardi di euro per l’assistenza sanitaria digitale (+7% rispetto all’anno precedente). Tuttavia, non è ancora chiaro come siano stati spesi, in relazione alle cartelle cliniche elettroniche e all’integrazione dei sistemi sanitari regionali e nazionali, dato che solo il 42% delle cliniche ha dichiarato di avere un sistema di acquisizione dati elettronico attivo in tutti i reparti.
Insomma, a dominare è ancora l’ancien régime dell’assenza di standardizzazione che impedisce la creazione di registri nazionali, ostacolando un’assistenza efficace e la gestione delle crisi. Durante la pandemia di Covid-19, la frammentazione del sistema ha impedito una risposta nazionale più efficace e coordinata e ha determinato ritardi nell’identificazione dei collegamenti tra compresenza di altre patologie e gravità della malattia. Non occorre ripeterlo: un sistema più integrato avrebbe sicuramente consentito analisi più ampie e acquisizioni generalizzabili su risposte e risultati .
Non solo. Oltre ad influire sulla crisi del Ssn, il sistema di dati sanitari frammentato comporta anche un considerevole danno per la ricerca scientifica. Essendo la raccolta dei dati affidata a metodi obsoleti, spesso manuali, diventa estremamente difficoltoso portare avanti progetti di studi multicentrici di alta qualità, con risultati generalizzabili e di impatto.
L’editoriale affronta infine un’importante questione: il bilanciamento dei diritti alla privacy con l’interesse pubblico a migliorare l’assistenza sanitaria. Ben 90 mila italiani si rifiutano di condividere i propri dati sanitari a causa di preoccupazioni sulla privacy, un sentimento rafforzato da sfiducia e diffidenza nella classe politica durante la pandemia di Covid-19. In questo quadro, l’impressione è che per la sanità digitale si dovrà attendere ancora per un bel pezzo, così come per maggiori garanzie per la salute legate al raffinamento nella raccolta e all’accesso ai dati sanitari.
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