Dilemma pensioni: aspettativa di vita e aspettative del governo

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L’allungamento delle previsioni di vita rischia di far andare in pensione tardi, e con assegni sempre più ridotti. Servirà aspettare almeno il 2027 per una riforma complessiva, che rischia ancora una volta di essere pagata dai lavoratori dipendenti e dagli stessi pensionati


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La vicenda dell’Inps che anticipa l’allungamento dell’età pensionabile di 3 mesi e poi è costretto alla retromarcia, mette in luce come il governo ha rinviato alcune scelte fondamentali per il paese. Questa è la terza legge di Bilancio del governo Meloni che evita le scelte sui temi importanti. Sulla riforma delle pensioni se ne parla dopo il 2027; sulla concorrenza, per quanto riguarda i balneari e molto altro, le gare sono rinviate e dopo il 2027; perfino per la riduzione del debito pubblico, i vincoli di riduzione della spesa diverranno cogenti dopo il 2027. Solo una cosa non è stata rinviata: il rinnovo delle concessioni della distribuzione dell’elettricità, ma solo perché a pagarla (qualche decina di miliardi) saranno i contribuenti in bolletta. Un emendamento della legge finanziaria ha allungato di altri vent’anni tutte le concessioni, eliminando ogni obbligo di gara. I concessionari verseranno un contributo una tantum  in cambio dell’estensione delle concessioni. Ma con una trovata senza precedenti, l’emendamento stabilisce che i concessionari recupereranno tale contributo in bolletta, addirittura maggiorato del loro presunto costo del capitale per la precisione al 5,6 per cento annuo, un tasso molto più alto di quello di mercato. 

Ma torniamo al tema pensioni. L’allungamento dell’aspettativa di vita comporta sia un impatto sul quando si può andare in pensione (sempre più tardi), sia sul quanto si prende di pensione (sempre meno, perché, a parità di contributi versati bisognerà pagare pensioni più lunghe). Ci sono due leve che tengono in equilibrio la spesa pensionistica con l’andamento della demografia: sono i coefficienti che impattano sull’ammontare (il quanto), e i requisiti di anzianità contributiva o di età (il “quando”). Per come funziona il sistema contributivo, alla fine della vita lavorativa il montante dei contributi versati viene tramutato nell’ammontare dell’assegno mensile  attraverso i cosiddetti coefficienti di trasformazione. Questi coefficienti sono soggetti a revisione ogni due anni (l’ultima volta a novembre 2024) e più si allunga l’aspettativa di vita più si riduce il coefficiente in modo da spalmare il montante contributivo su un periodo più lungo di erogazione della pensione. Fin qui tutto ok, il coefficiente si applica ma “non si vede”: occhio non vede, cuore non duole.

Ciò che si nota molto di più è invece il quando puoi andare in pensione. Poiché il sistema non è del tutto contributivo, ma per altri 10 anni almeno avremo pensionandi basati sul sistema misto-retributivo, bisogna regolare anche il “quando”  andare in pensione, e qui la regola dice che ogni tre anni si calcola l’aspettativa di vita e si pospone il requisito per andare in pensione dei mesi equivalenti in modo ridurre la durata dell’erogazione della pensione e mantenere in equilibrio la spesa pensionistica. Il governo Lega-M5s nel 2018 fece due cose sulle pensioni: quota 100, la più spettacolare, per la durata di un triennio; e il blocco dei requisiti fino a tutto il 2026 al punto a cui erano arrivati in quel momento per accedere al pensionamento anticipato (42 anni e 10 mesi di  contributi per gli uomini e uno in meno per le donne). Quello che pochi sanno è che il costo per l’erario  del blocco dei requisiti di accesso  è molto elevato, nell’ordine di miliardi, per il fatto che circa due terzi delle persone ogni anno accede a pensione attraverso il requisito dei 42 anni e 10 mesi di contributi. Se tutti possono andare in pensione 3 mesi prima di quanto prevedrebbe la legge vigente, l’anticipo di cassa è sostanziale.

E veniamo all’oggi. Dopo lo stop del Covid, l’aspettativa di vita ha riiniziato a crescere e questo significa che nel 2027 si dovrebbe andare in pensione 3 mesi più tardi, a 67 anni e 3 mesi o a 43 e 1 mese (un anno in meno per le donne). Se il governo ha cambiato idea e fa una retromarcia sostanziale, potrà giustificarla dicendo che il tema pensioni ha bisogno di una riforma complessiva. Ma dovrà trovare i soldi per il rinvio a dopo il 2027, ed è bene che si sappia che queste cose di solito le pagano i pensionati con le pensioni più alte, a cui viene tagliata la rivalutazione, e i lavoratori dipendenti sopra i 35 mila euro di reddito annuo, che pagano sempre più tasse attraverso il fiscal drag.
 





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