Carriere separate e Consulta. Le mani di Meloni sulla giustizia

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A palazzo Chigi l’incontro con Nordio sulla riforma costituzionale, pensando al referendum. Il parlamento elegge martedì 14 gennaio i quattro giudici costituzionali, unica certezza è la nomina di Marini 

La giustizia è il terreno fertile in cui Giorgia Meloni intende radicare la prossima fase del suo governo. Lo dimostra l’attenzione in prima persona con cui si sta dedicando a due partite parallele ma convergenti: da un lato la nomina dei quattro giudici costituzionali mancanti; dall’altro la riforma costituzionale della separazione delle carriere.

In attesa dell’esito per il referendum abrogativo della legge sull’autonomia differenziata. Le due questioni monopolizzeranno l’attività parlamentare della settimana.

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La separazione delle carriere

La separazione delle carriere è la parte più mediatica della riforma della giustizia, ma pesante a livello di assetti costituzionali è lo spacchettamento del Consiglio superiore della magistratura in due diversi consigli – uno di giudicanti e uno di requirenti – e di una Alta corte con funzioni disciplinari, con l’elezione di tutti i membri a sorteggio.

Eppure, Meloni si è progressivamente convinta e lo ha anche detto in conferenza stampa di inizio anno che questo disegno di legge possa essere il collante indolore per la coalizione di centrodestra, con il valore aggiunto di poter coagulare anche le forze centriste di Azione e Italia Viva.

Per questo l’obiettivo è portarla avanti con ritmi serrati e intestarla alla presidenza del Consiglio, tanto che lunedì il guardasigilli Carlo Nordio si è recato a palazzo Chigi (per la seconda volta in poche settimane) proprio per discutere del ddl che oggi comincia il suo passaggio alla Camera.

«L’intesa in maggioranza è ormai definita, dopo le ultime limature, a partire dal tema del sorteggio per il Csm, e quindi l’incontro a Palazzo Chigi sarebbe funzionale a una accelerazione sulla riforma della giustizia», fanno sapere fonti del ministero.

Una specifica non neutra, visto che la settimana scorsa Forza Italia aveva depositato un emendamento che reintroduceva l’elezione dei componenti laici del Csm, poi ritirato proprio su pressione di FdI. «Modificare il testo ora significa ritardarlo», viene spiegato da una autorevole fonte ministeriale, che è convinta che si arriverà al via libera con la doppia lettura entro il 2026.

Insomma, la direzione è tracciata nonostante il duro parere contrario votato a larga maggioranza dal Csm. L’attesa, poi, sarà per il quasi certo referendum costituzionale che le opposizioni chiederanno: a differenza di quello sull’autonomia non avrà il quorum e potrà essere il metro delle opposizioni per misurarsi politicamente con lo strapotere della premier. I tempi, tuttavia, sono relativamente lunghi e la convinzione del centrodestra e anche della premier è che l’aria nei confronti della magistratura sia cambiata anche nel paese.

Di qui la narrazione compulsata dal centrodestra delle toghe politicizzate – dalla questione dei migranti e dei centri in Albania fino al processo Open arms a Matteo Salvini – e della separazione come unica strada per eliminare le degenerazioni. Una retorica del nemico che fino ad oggi ha portato bene alla premier e che imporrà alle opposizioni di trovare una chiave altrettanto forte per costruire la sua contro narrazione.

La Consulta

L’altra grande questione arriva martedì 14 gennaio alla Camera, con la tredicesima seduta comune che dovrebbe anche essere quella buona per nominare finalmente i nuovi quattro inquilini di palazzo della Consulta. I giochi rimarranno aperti fino all’ultima ora utile e anche nella giornata di lunedì vertici e riunioni sono continuate.

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Alla vigilia gli accordi sono chiusi solo su un nome, quello di Francesco Saverio Marini – padre della riforma costituzionale del premierato – su cui Meloni non intende transigere. Sugli altri tre le incognite sono ancora da tener presenti: Forza Italia oscilla tra gli avvocati Pierantonio Zanettin e Francesco Paolo Sisto e un terzo nome ancora coperto che dovrebbe evitare di spaccare il partito.

Il Pd, invece, ha visto l’impennata delle quotazioni dell’accademico dei Lincei Massimo Luciani rispetto al costituzionalista Andrea Pertici che sarebbe il preferito di Elly Schlein. Quanto al nome tecnico, quello di Valeria Mastroiacovo sta reggendo ma non è detto che sia quello definitivo. Ci sono poi gli outsider come l’avvocata generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli. 

Nel turbinio di nomi, l’obbligo è quello di raggiungere una quaterna blindata con numeri ampi, a prova degli onnipresenti franchi tiratori. Il confronto bipartisan ruota anche intorno al come indicare i nomi – chi col cognome, chi col nome e cognome, chi col nome puntato – così da evitare tradimenti. Anche per questo, il dossier è stato preso in mano dalla premier, che lunedì ha incontrato gli altri due vicepremier per essere certa della compattezza della maggioranza sui nomi.

L’accordo, tuttavia, verrà trovato. Anche perché la Consulta ha appositamente fatto slittare al 20 gennaio – ultima data utile – la camera di consiglio per decidere sull’ammissibilità costituzionale del referendum sull’autonomi. La scelta è stata quella di attendere la ricomposizione di un collegio perfetto per prendere una decisione dai rilevanti risvolti politici. Certo è che la presenza dei nuovi quattro giudici, di cui due di estrazione di centrodestra, non potranno spostare in modo sostanziale gli equilibri interni alla Consulta e anche solo ipotizzarlo equivarrebbe a connotare politicamente l’attività della Corte.

I referendum

Entrambe le partite, dunque, portano in direzione di due referendum che avranno (anche se non è certo che si celebrino entrambi) evidenti risvolti politici. Come la parabola di Matteo Renzi ha insegnato a Meloni, le consultazioni popolari sono sempre il termometro del gradimento personale del leader del momento e la premier intende arrivarci nel migliore dei modi.

Quello che meno la preoccupa è quello sull’autonomia («essendo abrogativo, chi oggi fa rumore poi dovrà trovare il 50 per cento più uno degli elettori disposto a recarsi alle urne» è l’analisi del centrodestra), quello sulla separazione delle carriere è potenzialmente il più pericoloso ma anche il più lontano nel tempo.

Ma bisogna arrivarci nel migliore dei modi, senza lasciare nulla al caso ed evitando sviste parlamentari. Di qui lo strettissimo monitoraggio di palazzo Chigi che, come ha sempre fatto su tutti i dossier considerati dirimenti, ha quasi avocato a sé la pratica.

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