La mancata estradizione di Abedini verso gli Usa (molto probabilmente merce di scambio con la liberazione di Ceclia Sala) non è il primo caso di diplomazia italiana che usa escamotage tecnico-giuridici per risolvere complicati casi internazionali in cui ci sono di mezzo anche gli Stati Uniti. Un’altra vicenda in cui ci sono di mezzo terroristi, Medio Oriente, ostaggi da salvare, Italia, Stati Uniti, politica e giustizia si era conclusa in modo più o meno analogo, pur nella differenza della storia.
I fatti di oggi:
il 16 dicembre, su mandato degli Stati Uniti, viene arrestato a Malpensa Mohammad Abedini Najafabadi con l’accusa di aver passato a Teheran componenti per l’assemblaggio di Shahed, i terribili droni che un anno fa, in Giordania, hanno causato la morte di tre militari americani.
Il 19 dicembre, in Iran, viene arrestata la giornalista italiana Cecilia Sala con la generica accusa di aver violato le leggi del Paese.
Il 5 gennaio, Giorgia Meloni vola, a sorpresa, a Mar-A-Lago, residenza privata di Donald Trump a West Palm Beach Il. In cima al dossier affrontato dai due la liberazione di Cecilia Sala.
L’8 gennaio, Cecilia Sala viene liberata e torna in Italia,
Il 12 gennaio, Abedini viene liberato e torna in Iran. Il ministro della giustizia Carlo Nordio si avvale di una facoltà riconosciutagli dall’articolo 718 del codice di procedura penale e chiede (in modo obbligatorio) alla Corte d’Appello di Milano di revocare la custodia cautelare. «In forza dell’articolo 2 del trattato di estradizione tra il governo degli Stati Uniti d’America e il governo della Repubblica italiana», spiega, «possono dar luogo all’estradizione solo reati punibili secondo le leggi di entrambe le parti contraenti: condizione che, allo stato degli atti, non può ritenersi sussistente» perché il reato ipotizzato dagli Usa, «associazione a delinquere per violazione dell’International emergency economic powers act (la legge sui poteri economici in caso di emergenza internazionale), non trova corrispondenza nelle fattispecie previste e punite dall’ordinamento penale italiano». Inoltre, per gli altri due reati «non risulterebbero prove» e cadrebbero dunque le accuse di «associazione a delinquere per fornire supporto materiale a una organizzazione terroristica con conseguente morte» e «fornitura e tentativo di fornitura di sostegno materiale ad una organizzazione terroristica straniera con conseguente morte». «Nessun elemento», dichiara il ministro, «risulta ad oggi addotto a fondamento delle accuse rivolte emergendo con certezza unicamente lo svolgimento, attraverso società a lui riconducibili, di attività di produzione e commercio con il proprio Paese di strumenti tecnologici avente potenziali, ma non esclusive, applicazioni militari».
I fatti di ieri:
il 7 ottobre 1985, la nave da crociera italiana Achille Lauro viene dirottata da terroristi del Fronte di liberazione della Palestina mentre lascia le acque egiziane per approdare in Israele. Per rilasciare nave e ostaggi i terroristi chiedono la liberazione di una cinquantina di loro compagni detenuti nelle carceri israeliane. MIno Martinazzoli, allora ministro della Giustizia e firmaore, per l’Italia, del trattato di cooperazione giudiziaria con gli Usa, ricostruisce i fatti nella sua autobiografia Uno strano democristiano (Rizzoli, riedita da Rubbettino). Giovanni Spadolini, allora ministro della Difesa, convoca i vertici delle Forze armate, Bettino Craxi, presidente del Consiglio, si assicura l’appoggio del presidente della Tunisia, Giulio Andreotti, ministro degli Esteri, attiva i suoi canali diplomatici con il mondo arabo. Alla trattativa diplomatica si oppongono gli Stati Uniti.
L’11 ottobre, i dirottatori si arrendono, in Egitto, con la promessa di una via di fuga diplomatica gestita dal Governo italiano. Vengono prelevati e, insieme con Abu Abbas, membro esecutivo dell’Olp (organizzazione per la liberazione della Palestina) e negoziatore tra Italia e commando di Flp, vengono imbarcati su un volo Boeing. Gli Stato Uniti di Ronald Reagan decidono unilateralmente di intercettare l’aereo e di dirottarlo fino alla base di Sigonella, in Sicilia. Craxi consente l’atterraggio, ma mette l’aereo sotto il controllo delle autorità italiane. Comincia un altro braccio di ferro.
Il 12 ottobre, dopo un’altra trattativa l’aereo decolla da Sigonella e atterra a Ciampino , dove la magistratura avrebbe dovuto prendere in consegna i dirottatori. Gli Usa, che, violando la sovranità nazionale, scortano con i propri aviogetti l’aereo fino a Roma, chiedono l’estradizione.
«Qui» ricordava Martinazzoli, «entra in gioco il trattato di cooperazione giudiziaria tra gli Stati uniti e l’Italia. All’accordo avevano lavorato a lungo il ministero degli Esteri e quello della Giustizia ben prima che ne diventassi titolare. Ma la firma, poi, l’avevo apposta io. Il trattato era molto avanzato e mirava soprattutto alla cooperazione contro la criminalità organizzata. In particolare gli Stati Uniti ci chiedevano una collaborazione senza deficienze nel campo del contrasto al narcotraffico. Reagan considerava la lotta alla droga come un tema di punta della sua amministrazione e una questione d’orgoglio nell’eterno confronto con l’Unione Sovietica».
Dopo la firma del trattato di cooperazione giudiziaria, lo stesso cui si riferisce oggi il ministro Nordio, «la nostra collaborazione con gli Stati Uniti era sempre stata improntata alla reciproca stima e fiducia. Non avevamo avuto alcun problema, fino al caso Sigonella. Il trattato prevedeva una accentuata collaborazione anche in tema di provvedimenti cautelari in funzione della estradizione. In base al nostro accordo, un giudice degli Stati Uniti aveva inviato al Governo italiano la richiesta di arrestare, ai fini dell’estradizione, il palestinese Abu Abbas. Abbas non era mai salito sulla Achille Lauro, ma secondo la richiesta di arresto del giudice americano, era stato lui che, da terra, aveva pilotato gli altri terroristi. E dunque, secondo gli Stati Uniti era da considerarsi il vero capo del commando che aveva sequestrato la nave. Per questo volevano il suo immediato arresto e la sua immediata estradizione. Abu Abbas, intanto, si trovava nell’aeroporto romano di Ciampino, a bordo del Boeing egiziano. E gli egiziani mandavano a dire a Craxi che avrebbero sparato su chiunque avesse tentato di salire a bordo. Si era creata una situazione molto tesa e delicata. Il giudice che si occupava del caso voleva che si entrasse nell’aereo, ma il Governo egiziano si opponeva. Noi non sapevamo ancora che sulla nave era stato ucciso Leon Klinghoffer, un disabile statunitense di religione ebraica. Quello che sapevamo era che la nave era stata rilasciata e che il commando che aveva preso in ostaggio la nave era stato catturato. Per noi, dunque, la questione era chiusa. Decidemmo di non accogliere la richiesta di estradizione. Abu Abbas raggiunse Fiumicino e da qui, con un aereo jugoslavo, partì verso Belgrado. Dopo la partenza di Abbas ci riunimmo con Craxi e Andreotti al ministero. Constatammo che la richiesta americana faceva riferimento a delle intercettazioni di colloqui via radio tra Abu Abbas e la nave. Però, nella richiesta di estradizione, non ci erano stati forniti né il testo né la traduzione di queste conversazioni. Poiché il trattato che avevamo firmato spiegava che eravamo tenuti ad adempiere alle richieste in base a degli elementi di prova che dovevano fornirci, concludemmo che questi elementi di prova non c’erano. Per questo firmai un provvedimento di diniego rispetto alla richiesta del giudice americano».
Quando poi Spadolini, molto filo americano chiese spiegazioni a Craxi, lui convocò una riunione di gabinetto. «Fui molto sorpreso dalla spiegazione che uno dei convenuti diede per chiudere la conversazione», ricorda Martinazzoli. Alle tante richieste di Spadolini venne risposto: «”Facciamola finita. Noi avremmo potuto darglielo, ma il ministro della Giustizia ha detto che non si poteva e non glielo abbiamo dato”. E la cosa finì».
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link