Siria, speranze e libertà per un Paese che vuole risorgere dalle sue rovine

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Reportage sulla vita di un popolo che, sulle macerie di oltre mezzo secolo di dittatura, vuole costruire un futuro e una felicità troppo a lungo traditi. Le promesse e le passioni di chi, in un pugno di giorni, ha testimoniato, con la caduta del baluardo Assad, che “niente dura per sempre”

di Lucia Capuzzi

È il buio avvolgente ad annunciare il passaggio della frontiera. La sagoma della terra siriana lentamente prende forma protetta dalla coltre scura. I lineamenti del giovane miliziano emergono poco a poco dall’ombra. È il cenno entusiasta del capo la sola dogana in funzione, in attesa che la nuova amministrazione rimpiazzi quella al potere nel Paese nell’ultimo mezzo secolo. Le sue macerie sono ovunque nei quattrocento chilometri di tragitto che, dal confine libanese, conducono a Damasco. Carri armati, auto, gigantografie di Hafez e Bashar al-Assad frantumati o abbandonati. Eppure, a differenza delle rovine dei quasi quattordici anni di guerra civile, non ispirano tristezza. Al contrario. Dal caos della rivoluzione-bambina si sprigiona un’ondata di entusiasmo collettivo. Quell’energia incontenibile propria dell’infanzia dei grandi rivolgimenti storici quando i popoli sentono di avere ritrovato nelle proprie mani il destino perduto. Il tempo magico in cui tutto appare possibile e le promesse di felicità non sono state ancora tradite dai nuovi padroni. Come cronista è un privilegio assoluto avere l’opportunità di vedere la storia disfarsi e ricomporsi. E vivere la sfida costante di tradurre le immagini appena abbozzate in parole. Ne ho scelte alcune per comporre il mio personale alfabeto dell’insurrezione siriana. Un alfabeto incompleto per tratteggiare una cartina geopolitica della complessa temperie che attraversa la nazione. Forse, però, una mappa di parole può aiutare a restituire almeno in piccola parte il groviglio di passioni, speranze, emozioni contrastanti che il popolo siriano vive in quest’alba dai colori incerti.

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Per sempre

Al-Abad, per sempre. Per 53 anni, “Assad per sempre” è stato il leitmotiv della dittatura di Hefez prima e di Bashar, poi. Le folle che, da nord a sud, ne hanno celebrato lo sgretolamento repentino, in appena undici giorni di marcia dei ribelli, lo hanno trasformato nel grido: “Mafi li al-abad” ovvero “niente dura per sempre”. Lo ripetevano le mamme mentre avvolgevano i neonati nella bandiera della nuova Siria – con il verde a sostituire il rosso del partito Ba’ath e le tre stelle delle principali province del Paese al centro; le donne e gli uomini che sfilavano con le foto di figli, fratelli, amici ingoiati nel buco nero della repressione; i ragazzi ancora increduli all’idea di poter avere un futuro in patria dopo aver desiderato solo di partire. Lo urlavano quanti avevano dubbi sul nuovo corso della nazione all’ombra di una formazione di matrice jihadista. Lo sussurravano nelle moschee come nelle chiese, perfino nei quartieri alauiti, la minoranza — poco più di due milioni di persone su 23 milioni, per il 70 per cento sunniti — a cui apparteneva il clan Assad e da cui provenivano vertici e bassa manovalanza delle forze di sicurezza e della feroce milizia Shabbiha, incaricata del “lavoro sporco”. Se c’è un luogo contemporaneo dove il tempo ha mostrato la sua duplice natura di eternità e mobilità estrema quello è la Siria. La Primavera del 2011 si è congelata in una guerra civile infinita, espunta progressivamente dall’agenda mediatica e dalla lista delle priorità internazionali. Grazie al sostegno di Russia e Iran, il regime di Assad ha resistito contro ogni previsione ai sussulti rivoluzionari. L’opposizione laica e disarmata è stata massacrata o costretta alla fuga. Le frange islamiste e curde hanno continuato ad agire nella periferia della nazione. La situazione sembrava destinata a protrarsi all’infinito. Poi, d’un tratto, la dittatura è implosa: di fatto le truppe di Hts non hanno incontrato ostacoli nella loro marcia verso la capitale. “La sua caduta tanto rapida ha mostrato al mondo quanto fosse debole nonostante la sua violenza. Non è stato Hts a “buttarla giù”. Le ha dato solo il colpo finale. Il popolo siriano aveva già “buttato giù” Bashar al-Assad dai propri cuori tanti anni fa”, sostiene “abuna” Jihad Youssef, priore di Mar Musa, la comunità monastica fondata dal gesuita italiano Paolo Dall’Oglio.



Damasco, il lento ritorno alla normalità

Padre Dall’Oglio

Dall’Oglio. “Abuna Paolo”. Il nome è risuonato forte e chiaro sulla la Khaled Ibn Awalid street la via principale di Damasco durante i funerali del dissidente Mazen al-Hamadeh del 12 dicembre. Il suo corpo seviziato a morte era stato scoperto nel carcere di Sednaya all’indomani della fuga di Assad. Di abuna Paolo, invece, non s’è saputo più nulla dal luglio 2013. Quelle settimane d’estate era tornato nella sua Siria, da cui era stato espulso dal regime l’anno precedente. Si era recato a Raqqa, all’epoca sotto il giogo del Daesh, per cercare di mediare nella liberazione di alcuni ostaggi. Non ha, però, potuto farlo. Il 29 luglio, il religioso è svanito nel nulla. O, meglio, è stato fatto svanire. Forse dagli uomini del Califfato, forse dagli sgherri della dittatura, forse semplicemente da qualche miliziano di basso rango che non aveva idea di chi gli stesse di fronte. «Non mi sorprende che le sue foto siano portate ai cortei dalle folle. Il volto e le parole di Paolo Dall’Oglio sono scolpiti negli spiriti dei siriani. È una delle icone della nuova Siria. Padre Paolo è stato fra i primi a spendersi per evitare il bagno di sangue della guerra civile, cercando di aprire un canale di dialogo fra le parti. Purtroppo il regime non l’ha ascoltato e ha scelto di rispondere alle proteste pacifiche della popolazione con il pugno di ferro», racconta Jacques Murad, primo collaboratore di Dall’Oglio a Mar Musa negli anni Novanta e attuale vescovo di Homs. Città quest’ultima considerata la “capitale della rivoluzione”. Nella sua piazza dell’Orologio Nuovo e a Daraa sono cominciate le proteste del 2011. Il massacro di centinaia di manifestanti il 19 aprile 2011 è stato lo spartiacque tra la Primavera e la guerra civile costata oltre mezzo milione di morti — di cui 100.000 nelle carceri del regime —, tredici milioni di sfollati e profughi, più di 150.000 scomparsi secondo le organizzazioni umanitarie anche se l’elenco ufficiale della Croce Rossa internazionale si ferma a 35.000.

Le fosse comuni

Fosse comuni. La distesa di terra chiara è celata da un alto muro bianco. L’unica apertura è un cancello di ferro da cui si passa a fatica. Fino all’8 dicembre, Ald Bukia, alla periferia di Qutayfa, una quarantina di chilometri da Damasco, era inaccessibile: i soldati iraniani tenevano alla larga chiunque dal proprio centro di controllo delle telecomunicazioni. Installazioni e cavi sono ancora là: i militari di Teheran non hanno fatto in tempo a smantellarli nella fretta di lasciare la Siria. Prima di diventare presidio militare, tre anni fa, Ald Bukia era la principale delle fosse comuni che hanno trasformato Qutayfa nella città degli scomparsi. Venivano portati qui le migliaia e migliaia di corpi di quanti morivano nelle prigioni o cadevano vittima di esecuzioni extragiudiziali. Alla fine erano diventati così tanti che, quando hanno deciso di trasferirli, a cavallo tra il 2021 e il 2022, hanno riempito quattro camion al giorno per un mese. E’ stata, così, allestita un’altra maxi-fossa, sempre a Qutayfa, nel pressi di Baghdad Bridge, all’interno di una proprietà della Quarta divisione, comandata da Maher Assad, fratello di Bashar. Secondo la Syrian Emergency Task Force vi sarebbero sepolte almeno 100mila persone. E si tratta di appena uno dei tanti cimiteri clandestini che, nelle ultime settimane, continuano a spuntar fuori dal suolo siriano. «L’intero Paese era una fossa comune», dice sconfortato Afez, uno dei tanti in fila davanti al muro del dolore, a Ibnel Roumi street, dove si trova l’ospedale Mujahed. Nel suo obitorio vengono portati i cadaveri senza nome scoperti nelle prigioni. Afez lo fissa con sentimenti ambivalenti: spera di non trovare la foto del figlio Hussein, scomparso in una notte del 2014 e, al contempo, sogna di trovarla per potere almeno piangere il lutto-non lutto che lo dilania. «Saprò mai cosa gli è accaduto? Sa perché il futuro non mi spaventa? Perché il peggio l’abbiamo già vissuto».

Damasco, il lento ritorno alla normalità

Damasco, il lento ritorno alla normalità

Libertà

Huriya. Dopo averla tenuta conficcata in gola per oltre cinque decenni, “libertà” — Huriya appunto — è la parola che più si sente ripetere per le strade di Damasco, Homs, Aleppo. Una sensazione nuova che si riflette nelle esplosioni spontanee di gioia collettiva. Ubriachi di presente, i siriani cercano di rimandare il più possibile gli interrogativi sul futuro incombente. Difficile prevedere l’evoluzione politica della rivoluzione. Hts ha voluto tranquillizzare l’opinione pubblica nazionale e internazionale promettendo il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. L’abolizione dell’odiatissimo servizio militare obbligatorio — ufficialmente di 18 mesi ma prolungabile di fatto fino anche a dieci anni — ha, inoltre, riscosso grande consenso. La matrice jihadista del principale gruppo ribelle, però, desta non poche preoccupazioni. È vero che il leader, Ahmed al-Sharaa alias Mohammed al-Jonali ha, negli ultimi dieci anni, preso le distanze prima dal Daesh e poi da al-Qaeda. A Idlib, provincia del nord-ovest dove ha governato dal 2017, Hts ha imposto la sharia, applicandola, però, con una certa flessibilità. Non solo la polizia morale è stata sciolta ma, dal 2022, ci sono state importanti aperture sulla libertà di fede e la restituzione dei beni di cui i cristiani erano stati privati. Grazie al controllo della dogana — e al forte sostegno turco — ha costruito una rete di servizi di base assenti nel resto del Paese. Non si profila facile la replica del modello su scala nazionale. La Siria è al collasso. La guerra e le sanzioni internazionali hanno distrutto l’economia e ridotto in povertà il 90 per cento della popolazione.

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Speranza

Speranza. La moschea degli Omayyadi è il cuore di Damasco. L’enorme volta del grande bazar coperto conduce al cortile dell’ex tempio divenuto chiesa e, infine, luogo di culto islamico. Dall’8 dicembre, la preghiera del venerdì è affollata all’inverosimile. L’ultima volta, sui social, si è sparsa la voce che al termine ci sarebbe stata una distribuzione gratuita di viveri. Da ogni parte della capitale e dal resto della provincia si sono precipitati alla moschea. Impossibile contenere il fiume di persone che ha cominciato a premere. Nella calca, quattro persone sono state uccise e sedici ferite. La tragedia di donne, uomini e bimbi ammassati per un pacco di cibo aiuta a dare concretezza a quel numero: 90 per cento di poveri. Senza partire da questi ultimi non potrà esserci ricostruzione materiale e politica del Paese. Le autorità nazionali — indipendentemente da colore politico e ideologia —, da sole, non possono farlo. Questo offre alla comunità internazionale l’opportunità di influire sul nuovo corso. Non, però, come in passato, per aggiudicarsi appalti lucrosi e difendere i propri interessi. La leva della rimozione delle sanzioni — cruciale per il rilancio dell’economia — può essere impiegata per garantire che Hts mantenga le promesse di apertura e pluralismo. I siriani e le siriane, con la loro resistenza straordinariamente vitale, si sono guadagnati il diritto a che le loro speranze non siano, ancora una volta, deluse.



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