Salvatore Montefusco, chi è l’imprenditore che ha ucciso moglie e figliastra. La sentenza: «No all’ergastolo, motivi comprensibili»

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Salvatore Montefusco faceva paura in casa. Aveva un comportamento violento tanto da uccidere la moglie, Gabriela Trandafir (47 anni), e la figlia di lei, Renata (22 anni), nel giorno della propria sentenza di separazione. Adesso, dopo due anni e mezzo da quel delitto, il 73enne è stato condannato non con l’ergastolo, pena chiesta dall’accusa, ma con 30 anni di reclusione. La decisione del giudice è datata del 9 ottobre e la sentenza depositata nei giorni scorsi. Secondo la corte d’assise di Modena l’imputato ha agito spinto da motivi che sono  considerabili umanamente comprensibili e per questo la sua condotta va sanzionata con una pena minore. 

Salvatore Montefusco uccise moglie e figlia di lei, niente ergastolo. I giudici: «Motivi umanamente comprensibili»

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IL FATTO

Il delitto è avvenuto il 13 giugno 2022 quando, intorno a mezzogiorno, i vicini di casa hanno sentito urla di un litigio furioso e un forte rumore di spari provenienti di casa di Montefusco.

Sono stati immediatamente allertati i soccorsi che hanno trovato i corpi senza vita della 47enne Gabriela Trandafir, moglie di Montefusco, e della figlia di lei, Renata (22 anni), entrambe di origini romene. I cadaveri erano in cucina, vicino alla porta che dà sul giardino. Mentre le forze dell’ordine e il 118 arrivavano sul posto, l’uomo si è allontanato dall’abitazione. Una prima ipotesi è che volesse scappare ma qualche ora dopo ha chiamato i carabinieri da un bar di Castelfranco dove è stato raggiunto dai militari: durante la telefonata ha confessato di aver sparato ripetutamente prima alla figlia della moglie e poi alla moglie.

IL PROFILO 

Salvatore Montefusco, 73 anni, originario di San Cipriano d’Aversa, viveva da decenni a Castelfranco d’Emilia dove gestiva un’impresa edile. Era poi andato in pensione. Sposato due volte, aveva tre figli con la prima moglie. Ha vissuto a lungo a Riolo di Castelfranco, in un’abitazione di campagna dove teneva i cavalli, una sua grande passione. Dopo il naufragio del primo matrimonio, Salvatore aveva trovato un nuovo amore in Gabriela Trandafir, che aveva già una figlia, Renata. Dalla loro unione è nato un altro figlio, oggi poco meno che ventenne.

Prima del delitto era stato un paladino della giustizia: era stato uno tra i primi imprenditori della zona a denunciare, negli anni 80, le infiltrazioni della camorra nel Modenese. Montefusco era stato un testimone chiave nell’inchiesta che portò, nel 2000, ai primi arresti degli affiliati dei Casalesi.

UN RAPPORTO DIFFICILE

Tutti in paese parlavano della relazione tra Gabriela e Salvatore come «turbolenta». La donna nel corso degli anni aveva presentato ben sei denunce nei confronti del marito, le ultime due per fatti relativi al 2021. Gabriela raccontava di aggressioni verbali, minacce e che il marito avrebbe posizionamento di un dispositivo gps sull’auto per controllare i suoi spostamenti. Tuttavia dalle denunce non era mai emersa una vena di violenza fisica. La donna ha comunque chiesto la separazione. Ma all’udienza in Tribunale i due non si sono potuti presentare.

La preoccupazione principale di Montefusco era, almeno negli ultimi tempi, quella di perdere la casa di Cassola di Sotto, che sarebbe potuta finire alla moglie a seguito della separazione. Le visite in via Cassola di Sotto erano quindi diventate sempre fonte di litigi. 

LA SENTENZA

L’uomo non è stato condannato all’ergastolo, come chiedeva l’accusa, ma a 30 anni. Secondo i giudici della corte d’Assise di Modena «le attenuanti generiche vanno considerate equivalenti alle aggravanti (il risultato è, appunto, il ridimensionamento della sanzione) in ragione «della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato». L’imputato, è l’argomentazione della Corte, «arrivato incensurato a 70 anni e non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate» tra gli abitanti della casa dove vivevano «e all’esclusivo fine di difendere e proteggere il proprio figlio e le sue proprietà». La sentenza, firmata dal presidente estensore Ester Russo, ricostruisce in 213 pagine il processo sul delitto di Cavazzona di Castelfranco Emilia, concludendo per la sussistenza delle aggravanti del rapporto di coniugio e di aver commesso il fatto davanti al figlio minore della coppia, ma escludendo premeditazione, motivi abietti e futili, l’aver agito con crudeltà e ritenendo assorbiti i maltrattamenti nell’omicidio. 

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