Il 22 gennaio una delegazione di familiari andrà in Senato a chiedere il diritto alla verità. Le indagini sugli omicidi dei clan approssimative e sciatte
La figlia di uno dei morti che non esistono della Calabria non è mai riuscita a liberarsi da un tormento: «In tutti questi anni, in questi decenni, io non so ancora se mi sia capitato qualche volta di stringere la mano all’assassino di mio padre». La mancanza di giustizia e l’assenza di verità rendono sempre oscure le strade e le esistenze dei calabresi, ieri ma anche oggi.
Indagini poliziesche approssimative, inchieste giudiziarie sonnolente, processi mai celebrati. Qualche familiare ha ricevuto una carta di procura soltanto nove o dieci anni dopo la morte violenta del fratello o del padre o del figlio, a qualcun altro non hanno mai detto nulla, nemmeno una parola. Dopo più di un omicidio, non sono stati mai ascoltati o convocati in caserma o in un commissariato i vicini di casa delle vittime per far loro le domande più semplici e banali: avete visto qualcuno o avete sentito qualcosa?
La maggior parte degli omicidi a opera di ignoti della Calabria ha come movente la “pista passionale”, sempre questione di femmine e di corna. Un classico della letteratura mafiosa. Poi c’è qualche “lite fra macellai”, ci sono le “vendette personali”, c’è “lo scambio di persona”, c’è sempre “una pallottola vagante” che fa il giro di una piazza di paese.
C’è il nulla, c’è il vuoto. Come per Fedele Stranges, sessantaquattro anni, ucciso davanti a uno dei suoi quattro figli, Sebastiano, il 18 novembre del 1998 nelle campagne di San Luca. Giustiziato dentro il suo frantoio. Tante testimonianze vaghe e nessuna testimonianza vera: indagine archiviata. Come per Antonio Musolino cinquantaquattro anni, ucciso nel centro di Benestare il 31 ottobre del 1999. I killer hanno abbandonato la loro auto in una scarpata, dentro l’abitacolo ritrovati un cappello, alcuni bossoli e una coperta dove era stato avvolto il fucile che ha ammazzato Musolino. I reperti, qualche tempo dopo, sono spariti dall’ufficio “corpi di reato” del tribunale di Reggio Calabria: indagine archiviata.
Come per Giovanni Ventra, cinquantotto anni, consigliere comunale del Partito comunista italiano ucciso il 27 dicembre del 1972 nella piazza di Cittanova. Un proiettile impazzito, l’obbiettivo dei sicari era (o sarebbe stato) il boss Giuseppe Facchineri. Mai trovati i colpevoli: indagine archiviata.
Come per Gennaro Musella, cinquantasette anni, un ingegnere salernitano saltato in aria per una bomba a Reggio Calabria il 3 maggio del 1982. Stava andando nei suoi cantieri, che dalla Campania aveva trasferito sullo Stretto. Appena salì in auto, alle 8.20, l’esplosione. Tracce che portano alla ’ndrangheta, tracce che portano anche a Cosa nostra, tracce che col passare degli anni si disperdono per sempre: indagine archiviata.
Come per Francesco Marzano, il proprietario di un’azienda di mobili per ufficio, assassinato la sera del 1 dicembre 1997 a Siderno Superiore. I sicari lo stavano aspettando sotto casa. Sicari che non hanno mai trovato: indagine archiviata.
L’elenco degli omicidi senza colpevoli della Calabria è infinito. Con uno Stato che, nemmeno dopo tutti questi anni, sa tenere i conti delle vittime senza storia, tanti numeri sparsi nei tanti archivi polverosi della Calabria.
È una resa, ancora prima che investigativa, politica e culturale. È la resa dello Stato davanti ai crimini che hanno tenuto sotto il tacco una regione intera. Un buio che fa vivere male i sopravvissuti. «Il fatto che non ci siano colpevoli ha costretto molti dei familiari a guardare con sospetto tutto ciò che hanno intorno perché temono tutti e tutti», racconta Luciana De Luca, la giornalista del Quotidiano del Sud che ha raccolto in un “diario della memoria” le storie di più di duecento vittime innocenti della ’ndrangheta, di cui si sa niente anche dopo mezzo secolo. E aggiunge: «Mi hanno affidato attraverso le loro parole il loro dolore. Sembra paradossale ma molti di loro, anche fra familiari, hanno cominciato a comunicare fra solo soltanto dopo avere letto gli articoli, è come se si fossero liberati». Ma sono rimasti sempre soli. Con uno Stato che non ha fatto il proprio dovere sino in fondo per scoprire perché centinaia di suoi cittadini sono morti ammazzati, e che continua a non fare il proprio dovere ignorandoli ancora.
Molti di loro non hanno mai avuto lo status di familiari di vittime innocenti, a volte per quel vuoto di informazioni sulla loro morte e a volte per più banali e molesti cavilli. Richieste rifiutate per scadenza dei termini anche se i termini non erano affatto scaduti, burocrazia, indifferenza, ignoranza. Con una giustizia sempre più lontana, lontanissima, da una comunità afflitta.
Per fortuna che i figli e le sorelle e i fratelli delle vittime si sono ritrovati a Piana Libera, l’associazione della Piana di Gioia Tauro dove si conosciuti e mischiati, si sono consolati, si sono anche aiutati economicamente uno con l’altro. Per tirare avanti dopo un omicidio che non soltanto ha spento la vita, ma ha anche ridotto in miseria famiglie. Molti se ne sono andati dalla Calabria, sono emigrati al Nord per mettere distanza con la paura e con il dolore.
Chi è rimasto aspetta, aspetta tutto e niente. Mai neanche un indagato per la morte dell’elettricista Domenico Cannata, ucciso la notte del 16 aprile 1977 a Polistena. Si sa tutto del pizzo che volevano, non si è mai saputo chi lo voleva. Mai nessun colpevole per Fortunato La Rosa, ucciso il 18 settembre del 2005 sulla strada che da Canolo porta a Gerace. Sospetti su alcuni uomini di ’ndrangheta, però rimessi subito in libertà. Nessun sicario e nessun mandante per Stefano Bonfà, imprenditore di una piccola azienda agricola fra San Luca e Motticella, a pochi chilometri da Africo Nuovo. «Ha visto qualcosa che non doveva vedere», si disse al tempo. Poi non si disse più niente. Hanno avuto tutti lo steso destino. Stefano, Domenico, Giovanni e Gennaro, Fedele e Antonio. Fanno tutti parte di quella lista, dei dimenticati.
Così li ricorda Luciana De Luca: «Io, le persone che ho raccontato, credo di averle conosciute, le ho sentite, mi sono ritrovata a pensarle. E questo prodigio, perché di questo si tratta, è stato possibile perché i testimoni di quelle ingiustizie non si sono limitati a metterle insieme cronologicamente i fatti, ma si sono offerti».
Il prossimo 22 gennaio i familiari delle vittime calabresi saranno in Senato per chiedere “il diritto alla verità”. Li guiderà Daniela Marcone. Suo padre Franco era un funzionario integerrimo ucciso nella primavera di trent’anni fa. Da chi, non si sa ancora.
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