Nonostante lo stop del governo all’innalzamento di tre mesi dell’età pensionabile già dal 2027, la strada sembra delineata dall’allungamento dell’aspettativa di vita. Che ha effetti pesanti sulla previdenza
Nel 2023 l’Inps aveva liquidato ben 1.501.104 pensioni, ovvero una ogni 39 abitanti. Si tratta di uno dei tanti “record” italiani in Europa, le cui ricadute sono però tutt’altro che positive. Ma i problemi di sostenibilità del nostro sistema pensionistico sono perfettamente noti a tutti, anche se il miraggio di soluzioni facili quanto impossibili è duro a morire in Italia. E ogni governo è riuscito a conquistarsi la poltrona anche con le consuete, irresponsabili promesse elettorali.
Le promesse elettorali mancate
La compagine guidata da Giorgia Meloni ha onorato la tradizione alzando la posta: Quota 41, abolizione della riforma Fornero, assegni minimi addirittura a mille euro. Le promesse che i tre principali partiti di governo (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) hanno fatto agli italiani durante la campagna elettorale dell’autunno 2022 sappiamo come sono andate a finire (almeno per ora): le pensioni minime nella Manovra 2025 sono passate da 614,77 euro a 616,67 euro mensili (siamo poco sopra la metà dei fantomatici mille euro), mentre le principali regole introdotte dalla tanto discussa e invisa alle Destre «legge Fornero» restano tuttora in vigore (a conferma che, piaccia o no, quella era probabilmente l’unica riforma pensionistica sostenibile quando fu varata alla fine del 2011).
La novità nella Manovra 2025
Nella nuova legge di Bilancio, tuttavia, c’è una novità: la possibilità di accedere alla pensione anticipata a 64 anni cumulando l’assegno maturato con la rendita dei fondi di previdenza complementare. Appare evidente che, ormai, lasciare il lavoro prima dei 67 anni con quanto è stato versato all’Inps nel corso di una vita lavorativa non basterà più. E come potrebbe essere altrimenti? Lo scorso 7 ottobre, il presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, in occasione della sua audizione sul Piano strutturale di bilancio, lo ha detto chiaramente: anche nello scenario di natalità più favorevole, ci sarà comunque «un’amplificazione dello squilibrio tra nuove e vecchie generazioni», cosa che comporterà «un impatto importante» sulle politiche di protezione sociale. Secondo i calcoli fatti dall’Istat, infatti, nel 2031 (cioè tra soli 6 anni) le persone di 65 anni e più potrebbero rappresentare il 27,7% del totale secondo lo scenario mediano (dal 24,4% del 2023 e fino al 34,5% nel 2050).
Inevitabile far crescere l’età pensionabile
«L’impatto sulle politiche di protezione sociale sarà quindi importante», ha spiegato Chelli, «dovendo fronteggiare i fabbisogni di una quota crescente (e più longeva) di anziani». Alla luce di tutto questo, aveva sottolineato il presidente, «rispetto agli attuali 67 anni, si passerebbe a 67 anni e 3 mesi dal 2027, a 67 anni e 6 mesi dal 2029 e a 67 anni e 9 mesi a decorrere dal 2031». Per finire superando la boa di metà secolo, nel 2051, «a 69 anni e 6 mesi». Dunque, le rassicurazioni del governo che non ci saranno allungamenti dell’età pensionabile, in seguito alla denuncia della Cgil, che aveva notato come l’Inps avesse anticipato nelle simulazioni online l’innalzamento a 67 anni e tre mesi dell’età pensionabile a partire dal 2027, appaiono più dovute che non concrete, se lo stesso Cheli aveva chiarito sempre nell’ottobre scorso che «a legislazione vigente, vi sarà una crescita dell’età al pensionamento».
I disincentivi a lasciare il lavoro
Al di là della retorica elettorale, dunque, che immancabilmente fa cantare per i cittadini la sirena della fuga anticipata dal lavoro, non si può che disincentivare le uscite anticipate. Il governo Meloni lo sa, tanto da aver introdotto nella scorsa manovra un bonus (Maroni) per premiare chi rimanda la pensione. Come scriveva nell’ottobre scorso sul Corriere Ferruccio de Bortoli, «con l’avvicinarsi del momento in cui le pensioni saranno calcolate tutte con il sistema contributivo (oggi siamo all’80% circa), traguardo che realizza di fatto la riforma Dini di quasi trent’anni fa, le uscite anticipate dal lavoro sono sempre meno convenienti. L’incentivo semmai è a rimanere non ad andarsene prima».
Le anomalie italiane
Le pensioni costituiscono un problema in tutti i Paesi avanzati, ma tutto questo per l’Italia non è di consolazione perché per noi è un problema più grave che altrove. In estrema sintesi, infatti, la nostra situazione è la risultanza di 4 principali anomalie:
1) La denatalità. Nel 2024 l’Italia ha registrato un nuovo record negativo: le nascite tra gennaio e luglio scorsi sono risultate 4.600 in meno rispetto allo stesso periodo del 2023. Nel nostro Paese, dunque, si registra uno dei tassi più bassi al mondo (insieme alla Spagna), con 1,2 figli per donna, superato in negativo solo dalla Corea che conta 0,7 figli per donna. E anche per il 2025 il presidente dell’Istat Chelli preannuncia: «avremo un altro record negativo». In Italia tra gli anni ’50 e ’60 nascevano oltre 900 mila bambini ogni anno, con un picco di oltre un milione nel 1964. Negli anni seguenti la natalità ha subito un calo costante, stabilizzandosi sui 550 mila nuovi nati ogni anno per il periodo compreso tra il 1980 e il 2000. Questo significa che nei prossimi anni avremo un numero decrescente di lavoratori (e dei loro contributi Inps) che si troverà a carico un numero crescente di pensionati. Per capirlo, tentiamo un esempio: considerando una vita lavorativa media di 40 anni, con inizio a 25 e pensionamento a 65, nel 2024 chi ha lasciato il lavoro sono stati quelli della coorte 1959, che contava oltre 901 mila nuovi nati; per contro, i 26enni che si sono immessi nel mercato del lavoro, magari dopo la laurea (sono i nati del 1998), sono stati poco più di 531 mila: quasi la metà dei pensionati.
2) L’invecchiamento della popolazione. Gli italiani vivono sempre di più e questo fa piacere a tutti, ma è chiaro che l’aumento dell’aspettativa di vita è un attacco alla sostenibilità del sistema pensionistico. Se immaginiamo di nuovo un pensionato a 65 anni con un’aspettativa di vita media di 85 anni, possiamo prevedere venti anni di pensione a fronte di 40 anni di contributi versati durante la vita lavorativa. Con la grave denatalità in atto, il rapporto reale tra pensionati e lavoratori è già in squilibrio. Attualmente, ci sono circa 23 milioni di lavoratori in Italia che sostengono quasi 18 milioni di pensionati e, come ha ricordato l’Inps, tra pochi decenni più di un italiano su tre sarà in età pensionabile e lo squilibrio sarà spaventoso.
3) Le pensioni precoci. Se, come detto, l’Italia condivide con altri Paesi il problema della denatalità, è quasi tutto italiano, invece, quello delle «baby pensioni». Negli anni passati, infatti, la politica ha usato lo strumento delle pensioni precoci per raccattare consensi e facili vittorie elettorali. Il risultato, è che questi giovani, a volte giovanissimi, pensionati sono e saranno ancora a lungo sui conti dello Stato, contribuendo ad appesantire il rapporto già sofferente tra pensionati e lavoratori.
4) Il lavoro in nero. A tutto questo si aggiunge poi la piaga dei lavoratori in nero, che non rientrano tra coloro che versano i contributi Inps necessari per pagare le pensioni attuali, e che magari potrebbero anche ricevere assegni di tipo assistenziale, dunque pesando due volte sul sistema senza contribuire.
La necessità di «maggiori flussi migratori»
Il tempo stringe e il disastro è dietro l’angolo. Non tutto però è perduto (se lo vogliamo davvero). Il 25 settembre scorso, l’Inps ha presentato il 23esimo Rapporto annuale sul sistema pensionistico. L’analisi dell’Istituto evidenzia che l’aumento dell’età media della popolazione, il calo della fecondità e la riduzione della popolazione in età lavorativa, non sono attualmente compensati dall’immigrazione (altro che invasione!). Poiché per raggiungere la sostenibilità del sistema previdenziale è necessario che vengano immessi nel mercato del lavoro più giovani e più donne, e dato che i giovani sono necessari anche per compensare il calo demografico, e che nessun incentivo economico alla natalità potrà ribaltare nei prossimi decenni il bilancio tra nati e morti, l’unica soluzione compensatoria concreta è data dalla necessità di avere «maggiori flussi migratori» (oltre alla fondamentale lotta al lavoro nero e alla piaga dell’evasione fiscale). Insomma, al di là di come la si pensi in materia, al di là dei nazionalismi e delle ideologie identitarie, se vorremo avere tutti una pensione in futuro e a un’età accettabile, dovremo accettare una società più multietnica, perché non saranno le campagne elettorali sull’identità nazionale esasperata o sui blocchi navali a poterci salvare davvero da una sempre meno improbabile estinzione.
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