L’autobiografia del Papa: umiltà, umorismo, l’infanzia e la famiglia di migranti

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Quattro quotidiani italiani propongono diversi stralci dell’autobiografia del Papa (“Spera”) scritta con Carlo Musso, in uscita martedì in diversi Paesi del mondo. Ecco gli stralci pubblicati su: La Stampa, Avvenire, Il Messaggero e Il Giorno

La vita richiede umiltà

FRANCESCO

Microcredito

per le aziende

 

Non si sarebbero diplomati tutti quanti insieme, alla fine dell’anno 1955, quei quattordici ragazzi che nel marzo di sei anni prima misero piede per la prima volta alla Escuela Técnica Especializada en Industrias Quimicas N° 12, pieni di speranze. Non tutti, purtroppo.
Qualcuno sarebbe tragicamente caduto lungo il cammino.
Era il figlio di un poliziotto. E probabilmente, per molti versi, il più intelligente e dotato di noi tutti, appassionato e profondo conoscitore di musica classica e con una cultura letteraria pari alla sua preparazione musicale… Era un genio quel ragazzone grande e grosso, il più corpulento fra noi. Un genio.
Ma la mente dell’uomo a volte è un mistero insondabile. E un giorno che pareva tale quale agli altri quel ragazzo ha preso la pistola del padre e ha ucciso un coetaneo, un suo amico del quartiere.
La notizia deflagrò come un colpo di pistola anche per noi, ci scioccò. Lo rinchiusero nella sezione penale del manicomio, e andai a trovarlo. Fu la mia prima, concreta esperienza del carcere, due volte prigione perché era anche serraglio per malati di mente. Potei salutare il mio amico solo da una finestrina minuscola, un francobollo tagliato in quattro da una grata e incorniciato da una pesante porta di ferro. E fu terribile, ne restai profondamente turbato. Ci tornai con alcuni compagni, per fargli visita. Qualche giorno dopo, invece, sentii a scuola un inserviente e dei ragazzi di un altro corso sparlarne in tono di scherno. Mi infuriai. Dissi loro di tutto, quindi mi precipitai dal direttore per esprimere la mia riprovazione: per dire che cose simili non sarebbero dovute più accadere, che era ancor più grave fosse coinvolto pure un inserviente, che quel ragazzo stava già patendo abbastanza, tra manicomio e carcere. Quella sfuriata mi avrebbe conferito a scuola una qualche fama di uomo retto, non so quanto meritata; accade così per la fama. Il mio amico poi fu mandato in riformatorio e continuammo a scriverci, si salvò dall’ergastolo perché al tempo dei fatti era ancora minorenne. Venne liberato alcuni anni dopo.
Dopo il diploma, quando già ero nel noviziato, un mio ex compagno mi telefonò: mi disse che era riuscito a mettersi in contatto con la sorella di quel ragazzo, e che lei, afflitta, gli aveva riferito che, poco dopo essere uscito dal riformatorio, si era suicidato. Avrà avuto ventiquattro anni.
A volte, come dice il salmo, il cuore dell’uomo è un abisso.
Fu un dolore, che ne riportò alla mente e al cuore un altro.
Facevo il quarto anno quando sull’autobus fui avvicinato da un ragazzino del primo. Mi pare mi avesse domandato se potevo procurargli un qualche libro che gli serviva, io dissi di sì, che l’avevo a casa e glielo avrei portato, e così iniziò il rapporto. Era figlio unico, e a scuola ben noto per i problemi disciplinari che causava. Io avevo già sentito in me la chiamata, percepivo in modo intenso la mia vocazione, che tuttavia non avevo espresso ad altri, vidi che quel ragazzino non aveva fatto ancora la prima comunione e, insomma, cominciai ad accompagnarlo, a parlargli, a prendermene cura come potevo. Andai anche a casa sua a conoscere i genitori, due brave persone, la famiglia Heredia, ma… Ma alla fine, quando facevo il sesto, quel ragazzino uccise la mamma con un coltello. Avrà avuto quindici anni, non di più.
Ricordo la veglia funebre in quella casa, il volto terreo del padre, il suo dolore doppio, senza pace. Pareva la maschera di Giobbe: «Si offusca per il dolore il mio occhio e le mie membra non sono che ombra» (Gb 17,7).
Anche quella notizia irruppe a scuola come un temporale, potrei forse dire che ci compenetrò alla tragicità e alla complessità della vita. Ha scritto Jorge Luis Borges: «Ho tentato, non so con quale fortuna, di comporre dei racconti lineari. Non oso affermare che siano semplici; non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia».
Serve umiltà per rappresentare l’esperienza complessa della vita.
Ho apprezzato e stimato molto Borges, mi colpivano la serietà e la dignità con le quali viveva la sua esistenza. Era un uomo molto saggio e molto profondo. Quando, appena ventisettenne, divenni insegnante di letteratura e psicologia nel Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe, tenni un corso di scrittura creativa per gli studenti e pensai di mandargli, attraverso la sua segretaria, che era stata mia insegnante di pianoforte, due racconti scritti dai ragazzi. Apparivo ancora più giovane di quanto ero, tanto che gli studenti tra loro mi avevano soprannominato Carucha (faccia da bambino), e Borges invece era già uno dei più celebrati autori del Novecento; eppure se li fece leggere – dal momento che era ormai praticamente cieco – e per di più gli piacquero molto.
Lo invitai pure a tenere alcune lezioni sul tema dei gauchos in letteratura e lui accettò; poteva parlare di qualsiasi cosa, senza mai darsi arie. A sessantasei anni, prese un pullman a Buenos Aires e viaggiò per otto ore, di notte, per raggiungere Santa Fe. In una di quelle occasioni giungemmo in ritardo perché, quando arrivai a prenderlo in albergo, mi chiese se potevo aiutarlo a farsi la barba. Era un agnostico che ogni sera recitava il Padre nostro perché lo aveva promesso alla madre, e che sarebbe morto con i conforti religiosi.
Non può che essere uomo di spiritualità colui che scrisse parole come queste: «Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: “Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più; stiamo qui insieme come prima”. “Ora so che mi hai perdonato davvero” disse Caino, “perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di dimenticare…”».

«Saper ridere, lievito che fa crescere la gioia»

FRANCESCO

È anche una bambina spiritosa, la speranza. Sa che l’umorismo, il sorriso sono lievito dell’esistenza e strumento per affrontare le difficoltà, perfino le croci, con resilienza. L’ironia, poi, in questo può calzare a pennello una sagace definizione dello scrittore Romain Gary, è una dichiarazione di dignità, «l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita». […] In famiglia, da bambino, pure queste erano materia d’educazione da parte dei nostri genitori.
Per tutti noi fratelli, una pedagogia al senso della gioia, a una sana ironia, allo scherzo era considerata qualcosa di importante.
[…] La vita della mia famiglia ha conosciuto non poche difficoltà, sofferenze, lacrime, ma persino nei momenti più duri sperimentavamo che un sorriso, una risata, poteva strappare a viva forza l’energia per rimettersi in pista.
Soprattutto papà ci ha insegnato tanto. Non si tratta di rimuovere, di far finta di nulla, di sminuire i problemi – il comico del resto non è che il tragico visto di spalle –, ma piuttosto di mantenere dentro di sé uno spazio di gioia decisivo per affrontarli e superarli. […] È per rimarcare questo legame indissolubile, questo matrimonio fortunato tra speranza e gioia che nei mesi che hanno preceduto l’apertura della Porta Santa del nuovo Giubileo ho voluto incontrare in Vaticano un gruppo di più di cento artisti del mondo della comicità, di varie nazionalità e discipline. Qualcuno ha rilevato che si trattava di un bel salto da quando attori e giullari erano destinati a essere sepolti in terra sconsacrata, ma se uno sceglie di assumere il nome di Francesco, del “giullare di Dio”, è probabilmente il minimo che ci si possa aspettare. Poco dopo, uno di loro mi ha detto con arguzia che è bello provare a far ridere Dio… se non fosse che, per quel fatto dell’onniscienza, ti anticipa tutte le battute rovinandoti il finale. È proprio questo l’umorismo che fa bene ai cuori.
La vita ha inevitabilmente le proprie amarezze, fanno parte di ogni cammino di speranza e di conversione. Ma occorre evitare a tutti i costi di crogiolarsi nella malinconia, non permettere che essa incancrenisca il cuore. […] Sono tentazioni da cui non sono immuni neanche i consacrati. E purtroppo accade di incontrarne di amari, melanconici, più autoritari che autorevoli, più “zitelloni” che sposi della Chiesa, più funzionari che pastori, oppure più superficiali che gioiosi, e anche questo certo non va bene. Ma in generale noi preti abbiamo una buona propensione per l’umorismo e pure una certa consuetudine con barzellette e storielle, di cui siamo spesso, oltre che oggetto, buoni raccontatori.
Pure i papi. Giovanni XXIII, il cui carattere scherzoso era ben noto, durante un discorso disse più o meno: «Mi capita spesso la notte di iniziare a pensare a una serie di gravi problemi. Allora prendo la decisione coraggiosa e risoluta di andare al mattino a parlare col papa. Poi mi sveglio tutto sudato e mi ricordo che il papa sono io». Come lo capisco… E neanche Giovanni Paolo II era da meno. Nelle sedute preparatorie di un conclave, quando era ancora il cardinal Wojtyła, un cardinale più anziano e piuttosto rigido gli si avvicinò con l’intento di rimproverarlo, perché andava a sciare, scalava montagne, andava in bicicletta, nuotava… «Non penso siano attività adatte al suo ruolo», gli disse a mezza voce. Al che il futuro papa rispose: «Ma lei lo sa che in Polonia sono attività comuni per almeno il 50 per cento dei cardinali?». In Polonia all’epoca c’erano solamente due cardinali.
L’ironia è medicina, non solo per sollevare e illuminare gli altri, ma anche verso se stessi, perché l’autoironia è strumento potente per vincere la tentazione del narcisismo. I narcisisti si guardano continuamente allo specchio, si pittano, si rimirano, ma il miglior consiglio davanti a uno specchio è sempre quello di ridere di sé. Ci farà bene. Paleserà l’evidenza di quell’antico proverbio cinese che dice che ci sono solo due uomini perfetti: uno è morto e l’altro non è mai nato. […] In questo la Chiesa ha, informalmente, pure una complessa serie di categorizzazioni di battute e barzellette secondo gli ordini, le congregazioni, le figure. […] Le barzellette sui gesuiti e dei gesuiti, poi, sono un vero e proprio genere, forse paragonabile solo a quelle sui carabinieri in Italia, o alle mamme ebree nell’umorismo yiddish.
Quanto al pericolo del narcisismo, da prevenirsi con le giuste dosi di autoironia, mi viene in mente quella su un gesuita un po’ vanitoso che ha un problema cardiaco e deve farsi ricoverare in ospedale. Prima di entrare in sala operatoria, quel gesuita chiede a Dio: «Signore, è arrivata la mia ora?». « No, vivrai almeno altri quarant’anni» gli dice Dio. Appena ristabilito ne approfitta per farsi anche il trapianto di capelli, un lifting facciale, la liposuzione, le palpebre, i denti… insomma esce da lì che è un uomo diverso. Subito fuori dall’ospedale, però, una macchina lo investe e muore. Non appena si presenta al cospetto di Dio, protesta: «Signore, ma… mi avevi detto che sarei vissuto altri quarant’anni!».
E Dio: «Ops, scusa… non ti avevo riconosciuto…». E me ne hanno raccontata anche una che mi riguarda direttamente, quella di papa Francesco in America. Fa più o meno così: appena sbarcato all’aeroporto di New York per il suo viaggio apostolico negli Stati Uniti, papa Francesco trova ad attenderlo un’enorme limousine. È un po’ imbarazzato per quello sfarzo, ma poi pensa che è da una vita che non guida, e una macchina del genere proprio mai, e insomma dice tra sé: vabbè, ma quando mi ricapita… Guarda la limousine e chiede all’autista: « Non è che me la lascerebbe provare?».
E l’autista: «Guardi, sono davvero spiacente, Sua Santità, ma proprio non posso farlo, sa le proce il protocollo…». Ma sapete come dicono sia il papa quando si mette in testa una cosa, insomma insiste, insiste, sino a che quello cede. Papa Francesco allora si mette al volante su una di quelle enormi strade e… ci prende gusto, inizia a pigiare sull’acceleratore: 50 all’ora, 80, 120… Fino a quando non si sente una sirena e una macchina della polizia non lo affianca e lo ferma. Un giovane poliziotto si avvicina al finestrino oscurato, il papa un po’ intimidito lo abbassa e quello sbianca. «Scusi un attimo» dice, e torna alla sua auto per chiamare la centrale. « Boss… credo di avere un problema.» E il capo: «Che problema?». « Be’, ho fermato un’auto per eccesso di velocità… ma c’è sopra un tipo davvero importante.» «Quanto importante? È il sindaco?». « No, capo, più del sindaco…». « E più del sindaco chi c’è? Il governatore?». « No, di più…». « Ma sarà mica il presidente? ».« Di più, penso…». « E chi mai può essere più importante del presidente?». «Guardi, capo, io non so bene chi sia, ma le dico solo che il papa gli fa da autista!».
Il Vangelo che ci ammonisce a ritornare come i bambini ( Mt 18,3), per la nostra stessa salvezza, ci ricorda in questo modo anche di recuperare la loro capacità di sorridere, che, per gli psicologi che si sono presi la briga di contarla, si rivela più di dieci volte superiore a quella degli adulti.
Non c’è niente che mi rallegri oggi quanto incontrare i bambini: se da fanciullo ho avuto i miei maestri del sorriso, ora che sono vecchio spesso sono i bambini i miei mentori. Sono gli incontri che mi emozionano di più, che più mi fanno stare bene. E poi quelli con i vecchi: gli anziani che benedicono la vita, deponendo ogni risentimento, che hanno la gioia del vino che si è fatto buono negli anni, sono irresistibili.
Hanno la grazia del pianto e del riso, come i bambini. Quando li prendo in braccio, nelle udienze in piazza San Pietro, il più delle volte i bambini sorridono; altri invece, vedendomi tutto vestito di bianco, credono che io sia il dottore che viene a fargli l’iniezione, e allora piangono. Sono campioni di spontaneità, di umanità, e ci ricordano che chi rinuncia alla propria umanità rinuncia a tutto, e che quando ci diventa difficile piangere seriamente o ridere appassionatamente è allora che è davvero iniziato il nostro declino. Diventiamo anestetizzati, e gli adulti anestetizzati non fanno bene né a se stessi, né alla società, né alla Chiesa.

Valori e semplici così nasce un Papa

FRANCESCO

La puntualità mi piace, è una virtù che ho imparato ad apprezzare. E arrivare in orario lo considero un mio dovere, un segno di educazione e rispetto. Ma era la mia prima volta ed ero già in ritardo. Il tempo era scaduto da una settimana e io ancora non mi decidevo. Anche stare con mamma mi piaceva.
Fortunatamente la partera, la levatrice, la signora Palanconi, era una donna capace ed esperta, che avrebbe festeggiato addirittura cinquemila nascite. Quando capì che non si doveva più attendere oltre, fece chiamare il medico di famiglia, e quello si precipitò.
Giunse che mamma era in camera, sdraiata sul letto: il dottor Scanavino la visitò, la tranquillizzò poi, e questo è spesso stato un gran racconto nelle nostre riunioni di famiglia, prese a sedersi sulla sua pancia, e a premere, e a “saltellare”, per scatenare il parto. E fu così che venni al mondo, nel giorno di San Lazzaro di Betania, l’amico che Gesù resuscitò dai morti. “Venni fuori” che pesavo quasi 5 chili, e mamma all’incirca 44: fu una gran fatica, insomma Maria Luisa Palanconi avrebbe accompagnato alla vita tutti noi fratelli, e in seguito persino un figlio di mia sorella.
Non ho memoria della nascita del secondogenito, mio fratello Oscar Adrián, a cui fu dato il nome di uno zio materno, perché allora, il 30 gennaio 1938, avevo poco più di un anno. Ma già rammento quella di mia sorella Marta Regina, il 24 agosto 1940. E soprattutto quella del quartogenito: una scena intima, familiare, che ho davanti agli occhi come se stesse accadendo in questo momento. Noi fratelli siamo tutti ammalati, con l’influenza, Oscar e io nella nostra stanza e mia sorella piccola nella sua. Arriva il dottor Rey Sumai e ci visita tutti e tre, poi si incammina con passo sicuro lungo il corridoio, verso la biblioteca con i libri di papà, dove ora è sistemata mamma.

LA BORSA Entra, le posa una mano sulla pancia ed esclama: «Oh, manca poco!». Poche ore dopo arriva la signora Palanconi, con la sua grande borsa. Papà e zio sono in cucina. La porta della biblioteca si chiude davanti a noi, mamma e la levatrice là dentro, e noi bambini che ci ammassiamo dietro l’uscio, con l’orecchio schiacciato a origliare, per cogliere il momento in cui sarebbe arrivato il fratellino nuovo, il primo grido alla vita. I grandi ci parlavano della cicogna che chissà mai perché, forse perché da quella città, fin dalla Grande Esposizione Universale della fine del secolo precedente, parevano giungere tutte le cose più nuove e moderne doveva arrivare sempre da Parigi, ma Oscar e io avevamo già capito come stavano le cose.
Lo sapevamo come nascono i bambini. E quella sera, il 16 luglio 1942, Alberto Horacio è nato. La squadra era quasi fatta.
Una famiglia comune, con dignità. Quello della dignità è stato un insegnamento sempre presente nelle parole e nei gesti dei nostri genitori.

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LA CASA Dal mio secondo anno di vita, fino a quando non ne compii ventuno, ho sempre risieduto al 531 di calle Membrillar. Una casa a un solo piano, con tre stanze da letto, quella dei miei genitori e le due che ci dividevamo noi fratelli e le sorelle, un bagno, una cucina con tinello, una sala da pranzo più formale, un terrazzo. Quella casa e quella via sono stati per me le radici di Buenos Aires e dell’Argentina tutta. Un’abitazione semplice in un quartiere semplice, tutte case basse; vi si respirava un’aria tranquilla e pacifica, un clima di fiducia negli altri come nel futuro. Se mia madre doveva rincasare un po’ più tardi, e temeva che noi ragazzi fossimo già tornati da scuola, lasciava le chiavi al vigile di quartiere, proprio all’angolo; ma la verità è che, come si suol dire, si poteva dormire lasciando la porta aperta. Un barrio del ceto medio nel cuore di una città in continua trasformazione e di un grande Paese, uno dei più estesi del mondo. Il censimento nazionale del 1869 aveva contato una popolazione ancora lontana dai due milioni di abitanti, ma quando nacqui, nel 1936, erano già diventati dodici, una cifra che cresceva esponenzialmente, e la capitale era ormai una delle più grandi metropoli del pianeta. Quei numeri sarebbero stati destinati più che a triplicare.
Un Paese giovane, nato in una sterminata e sperduta pianura da una delle colonie più fuori mano e suburbane del vasto impero spagnolo, e che ha condensato la sua storia complessa, tragica e meravigliosa in poco più di due secoli e una manciata di generazioni. La mia patria, per la quale continuo a provare un identico amore, grande e intenso. Il popolo per cui prego ogni giorno, che mi ha formato, mi ha preparato e poi offerto agli altri.
Quando anche Maria Elena nacque, sempre nella casa di Membrillar, il 17 febbraio 1948, dopo che mamma nel frattempo ebbe perso un figlio all’inizio della gestazione, la tribù fu al completo. Con l’aggiunta di Churrinche, un cagnetto di razza indefinita e indefinibile, che battezzammo così in onore di un altro indomito quattrozampe della pampa che era appartenuto ai nonni materni. Mamma diceva che noi cinque figli eravamo come le dita della mano, ognuno diverso dall’altro; tutti differenti e tutti ugualmente suoi: «Perché se mi pungo un dito sento lo stesso dolore che proverei se me ne pungessi un altro».

IMMIGRATI Tanos, così ci chiamano in Argentina. Fra i primi immigrati italiani giunti sulla Plata spiccavano all’inizio perlopiù i genovesi, tanto che Xeneixes divenne l’epiteto per indicarli quasi tutti. Tra quelli del Nord, poi, molti portavano il cognome Battista, e allora Bachicha si fece soprannome comune per gli italiani. Quando infine si aggiunse la grande immigrazione dal Sud della penisola, calabresi, siciliani, pugliesi e campani, e quelli che sbarcavano a chi domandava loro da dove venissero presero a rispondere: «Soy Napulitano», diventò Tanos il nome collettivo a indicare la parte per il tutto. Tutti noi mangiatori di pasta.

«Vengo da una famiglia di emigranti. Evitarono il naufragio in extremis»

Esce martedì 14 in cento Paesi il libro “Spera“, la prima volta che un pontefice racconta la propria vita Pubblichiamo un estratto sul disastro della nave su cui nel 1927 sarebbero dovuti salire i nonni e il padre

PAPA FRANCESCO

Raccontarono che si udì una scossa tremenda, come un terremoto. Tutto il viaggio era stato accompagnato da vibrazioni forti e sinistre (…) ma quella era un’altra cosa: somigliava più a un’esplosione, come una bomba. (…) Non era una bomba: un tuono sordo, piuttosto. (…) Un uomo, dopo essere rimasto per ore aggrappato a un legno nell’oceano, avrebbe testimoniato di aver visto con chiarezza sfilarsi l’elica e l’albero del motore di sinistra. Completamente.
L’elica aveva squarciato lo scafo in una profonda ferita: l’acqua entrava copiosa (…). Raccontarono che gli orchestrali ricevettero l’ordine di proseguire a suonare (…).
La nave continuava a inclinarsi sempre di più, il buio avanzava, il mare si ingrossava. Quando fu evidente che le prime rassicurazioni ai passeggeri non potevano più bastare, il comandante diede ordine di fermare le macchine, fece suonare la sirena d’allarme e i marconisti lanciarono il primo Sos.
Il segnale di soccorso fu raccolto da varie imbarcazioni (…). Accorsero immediatamente, ma furono tutti costretti ad arrestarsi a una certa distanza perché una vistosa colonna di fumo bianco faceva temere una disastrosa esplosione delle caldaie. Dal ponte (…) il comandante cercava sempre più disperatamente di invitare alla calma e coordinava le operazioni di soccorso, dando priorità a donne e bambini. Ma quando sopraggiunse la notte (…) la situazione precipitò del tutto. Furono calate le lance di salvataggio, ma l’inclinazione della nave ormai era terribile: molte colarono subito a picco dopo aver colpito lo scafo, altre si rivelarono fatiscenti e inservibili, imbarcavano acqua che i passeggeri erano costretti a levare utilizzando i loro cappelli. Altre ancora, prese d’assalto, si rovesciarono, o affondarono per il sovraccarico. In parecchi, artigiani e contadini delle valli e delle pianure, non avevano mai visto il mare prima di allora, e non sapevano nuotare.
Preghiere e urla si mescolavano.
Fu il panico. Molti passeggeri caddero o si gettarono in mare, annegando. Alcuni furono vinti dalla disperazione. Altri ancora furono divorati vivi dagli squali.
In quel pandemonio le zuffe non si contavano, ma anche i gesti di coraggio e di abnegazione. (…) Ben prima della mezzanotte la nave era ormai del tutto invasa dall’acqua, si alzò verticalmente di prua e con un ultimo gemito fragoroso (…) colò a picco, a oltre 1400 metri di profondità. (…) Il comandante restò a bordo fino alla fine, facendo suonare agli orchestrali rimasti la Marcia Reale. Il suo corpo non fu mai trovato. Di certo, appena prima che il piroscafo si inabissasse, vennero uditi molti colpi di arma da fuoco, esplosi dagli ufficiali che, dopo aver fatto quanto possibile per i passeggeri, avevano deciso che non avrebbero affrontato lo strazio dell’annegamento. (…) Il recupero dei pochi superstiti che tentavano di rimanere a galla (…) proseguì fino a tarda notte. Quando, prima dell’alba, sopraggiunsero (…) altri piroscafi brasiliani, non trovarono più alcun sopravvissuto.
Quella nave, lunga quasi 150 metri, era stata a inizio secolo il vanto della marina mercantile, il più prestigioso transatlantico della flotta italiana, aveva trasportato personaggi come Arturo Toscanini, Luigi Pirandello (…). Ma quei tempi erano passati da un pezzo. In mezzo c’era stata una guerra mondiale, e l’usura, l’incuria e la scarsa manutenzione avevano fatto il resto. (…) Quando partì per il suo estremo viaggio, nella perplessità del suo stesso comandante, aveva a bordo più di 1200 passeggeri, in prevalenza migranti piemontesi, liguri e veneti. Ma anche dalle Marche, dalla Basilicata, dalla Calabria. Secondo i dati forniti dalle autorità italiane dell’epoca, nel disastro morirono poco più di 300 persone, in massima parte membri dell’equipaggio; ma i giornali sudamericani riportarono una cifra ben più alta, oltre il doppio, includendo anche clandestini, diverse decine di emigranti siriani e i braccianti agricoli che dalle campagne italiane andavano in Sudamerica per la stagione invernale.
Minimizzato o coperto dagli organi del regime, quel naufragio fu il “Titanic” italiano.
Non so dire quante volte ho sentito raccontare la storia di quella nave che portava il nome della figlia di re Vittorio Emanuele III (…). Il Principessa Mafalda. Quella storia la raccontavano in famiglia. La narravano nel barrio. La cantavano le canzoni popolari dei migranti, da una parte all’altra dell’oceano (…). I miei nonni e il loro unico figlio, Mario, il giovane uomo che sarebbe diventato mio padre, avevano comprato il biglietto per quella lunga traversata, per quella nave salpata dal porto di Genova l’11 ottobre 1927, con destinazione Buenos Aires. Ma non la presero. (…) Non erano riusciti a vendere in tempo ciò che possedevano. Alla fine, loro malgrado, i Bergoglio furono costretti a scambiare il biglietto, a rimandare la partenza per l’Argentina. Per questo ora io sono qui. Non immaginate quante volte mi sia trovato a ringraziare la Provvidenza Divina.

© 2025 Mondadori Libri S.p.A., Milano © RIPRODUZIONE RISERVATA Papa Francesco: Spera. L’autobiografia (Mondadori)

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