Il mondo questa settimana: Cecilia Sala e la stampa iraniana, l’eccezionalismo di Trump, Ucraina e gas, la Cina in Africa

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CECILIA SALA E LA STAMPA IRANIANA

di Michele Marelli

Se i media in lingua persiana all’estero hanno fin dal 19 dicembre dato ampio risalto alla notizia, dedicandovi approfondimenti e dibattiti pressoché ogni giorno, lo stesso non si può dire per i giornali e le agenzie di stampa operanti all’interno della Repubblica Islamica. Come risulta dall’analisi di sette quotidiani tra i maggiori in Iran, il primo articolo pubblicato da un giornale a proposito dell’arresto di Cecilia Sala esce solo il 31 dicembre 2024 (solo nove righe inserite in un pezzo dedicato alla visita del ministro degli Esteri omanita a Teheran). In tutto, dal 31 dicembre 2024 al 9 gennaio 2025, giorno successivo alla liberazione della giornalista italiana, i pezzi dedicati alla vicenda e alle conseguenti tensioni scaturite fra Italia e Iran sono soltanto 12…

Continua a leggere: Come la stampa iraniana racconta l’arresto di Cecilia Sala

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L’ECCEZIONALISMO DI TRUMP

di Federico Petroni

Le parole e i silenzi di Donald Trump dicono molto sulla visione del mondo, sui progetti e sulle priorità del presidente entrante. Anzitutto, le dichiarazioni su Canada, Groenlandia, Panamá, Golfo del Messico rispolverano la dottrina Monroe. Rivendicano supremazia sull’emisfero occidentale e sulle sue rotte marittime, da epurare delle interferenze cinesi. Seppelliscono i sospetti di isolazionismo: America First non significa ritiro dal mondo, ma rafforzare Fortezza America espandendola per meglio proiettare la potenza contro i nemici.

Quindi, allineano gli Stati Uniti al mutato clima internazionale, neo-imperiale e mercantilista. Constatano il decesso, già avvenuto, dell’ordine liberale internazionale. E mandano un messaggio ai partner: siete considerati satelliti. Trattare gli alleati come i nemici fu l’errore più grave del primo Trump. Vedremo se lo sarà anche stavolta. O se il clima di guerra indurrà allineamenti.

Rilanciare l’eccezionalismo serve a superare le miserie del presente. Ultimamente il sogno americano aveva perduto gloria e denari. Riacquisire la prima deve essere sembrato imperativo: difficilmente l’amministrazione entrante in quattro anni lenirà le dure condizioni di vita interne. Redistribuire la ricchezza non pare prioritario.

Il nuovo destino manifesto dà una missione trascendente agli oligarchi a stelle e strisce. La seconda presidenza Trump si fonda sul connubio tra nazionalismo e capitale. A Musk le stelle, agli altri colossi privati le miniere e i giacimenti.

Trump parla anche per coprire le difficoltà. Sarà molto complicato, ammette, fermare subito la guerra in Ucraina. La Russia sembra non accettare le sue condizioni, già al ribasso. Gli Stati Uniti potrebbero intensificare il conflitto: escalation per la de-escalation. Come fanno da decenni per blandire una sconfitta. I russi non sono i vietcong o i taliban, non possono attendere all’infinito. Ma gli americani non possono semplicemente staccare la spina a Kiev.

Infine, i silenzi di Trump nascondono piani operativi. Niente sull’Iran. Teheran è prossima alla Bomba. Perché rimpiazza la vecchia deterrenza, distrutta dalla decapitazione dei suoi clienti attorno a Israele. Al punto che a Gerusalemme e a Washington (sia Biden sia Trump) si valuta se bombardare gli impianti nucleari. Ora o mai più, visto che a ottobre gli israeliani hanno molto indebolito la contraerea persiana. Per non subire l’attacco, l’Iran potrebbe offrire un congelamento del programma atomico. In questo estremo tentativo di aprire un negoziato potrebbe essersi fatta largo Cecilia Sala.

Per approfondire: Cecilia Sala torna in Italia, Donald Trump a 360° e altre notizie interessanti

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UCRAINA E GAS

di Mirko Mussetti

I paesi partecipanti al Gruppo di contatto di Ramstein per il coordinamento delle forniture belliche destinate all’Ucraina hanno approvato un cronoprogramma suddiviso in otto aree di cooperazione militare che si estende fino al 2027. In occasione del 25° vertice del Gruppo, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin ha esortato i partecipanti a non permettere che la “coalizione storica” si dissolva, finendo per agevolare le Forze armate della Federazione Russa. Il messaggio implicito è di tener fede agli impegni assunti indipendentemente dalle posizioni in merito del presidente eletto degli Usa Donald Trump.

Il timore diffuso tra i paesi sponsor dell’Ucraina è che Washington possa interrompere presto il proprio sostegno materiale – militare e finanziario – a Kiev, sgravando gli ingenti oneri sugli alleati. Proprio per questa ragione, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky spera di incontrare di persona il futuro inquilino della Casa Bianca per perorare al meglio la propria causa, magari a pochi giorni dal suo insediamento (20 gennaio). Certo è che l’ex attore di Kryvyj Rih – a differenza di altri leader mondiali – non è stato invitato alla cerimonia inaugurale, così come non è stata contattata la sua grande sostenitrice Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea.

Il capo di Stato ucraino può comunque ritenersi soddisfatto per la ricezione della prima rata da 3 milioni di euro del prestito da 50 milioni approvato a ottobre dal G7 a guida italiana. Denaro necessario sia per l’erogazione di servizi pubblici essenziali sia per sostenere lo sforzo bellico contro l’aggressore. Ma sul campo di battaglia le cose non si mettono bene per l’Esercito di Kiev: la recente offensiva nell’oblast’ di Kursk (Russia) si è fermata sul nascere al villaggio di Berdin con un’ingente perdita di uomini, mentre le forze di invasione di Mosca hanno continuato ad avanzare lentamente ma su più direzioni nel Donbas. 

I vertici di Kiev non devono inoltre sottovalutare eventuali effetti collaterali dovuti alla sospensione del transito di gas naturale russo sul territorio ucraino, in vigore dal 1° gennaio in seguito al mancato rinnovo del contratto con l’azienda di Stato russa Gazprom. La decisione di Zelensky di non prolungare la cooperazione commerciale con il nemico danneggia non solo l’Ucraina stessa per il mancato incasso di circa 800 milioni di dollari l’anno in royalties (pedaggio) e per l’impossibilità di guadagnare sugli idrocarburi transitanti (accantonamento indebito di gas comprato da altri paesi), ma intacca la sicurezza energetica di altri paesi, a partire da Slovacchia, Ungheria e Moldova. Il primo ministro slovacco Robert Fico ha minacciato ritorsioni nel caso in cui il flusso di gas non venisse ripristinato in tempi brevi. Probabilmente sospendendo le forniture di energia elettrica al paese in guerra o addirittura non prestando il territorio della Slovacchia al transito di armi occidentali per le Forze armate ucraine, sul modello adottato dall’Ungheria di Viktor Orbán. Cogliendo queste frizioni, il presidente russo Vladimir Putin ha cercato di allargare le crepe promettendo al leader di Bratislava di trovare soluzioni alternative per onorare le consegne di gas a Bratislava. Quasi certamente ricorrendo al gasdotto sottomarino TurkStream nel Mar Nero. 

Molto più seria è la situazione in Moldova. La Bessarabia vanta poche settimane di autonomia energetica, mentre la Transnistria è già in gravissima difficoltà. Il regime di Tiraspol ha infatti ridotto l’erogazione di energia elettrica alla popolazione a sole 5 ore al giorno e per provvedere calore nelle abitazioni ha permesso anche l’abbattimento di alberi nei parchi pubblici per farne legna da ardere. La crisi umanitaria nella regione separatista d’oltre-Nistru appare sempre più inevitabile. 

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Per approfondire: Come e perché chiudere la guerra d’Ucraina 


LA CINA IN AFRICA

di Luciano Pollichieni

La visita annuale in Africa di Wang Yi (la trentottesima consecutiva di un ministro degli Esteri cinese) si è svolta in quattro paesi – Namibia, Ciad, Repubblica del Congo e Nigeria – secondo il tradizionale protocollo dell’evento. Lo scopo simbolico è sempre lo stesso: mostrare agli alleati africani che la Cina è genuinamente interessata a un rapporto bilaterale paritario, ma il contesto generale è innegabilmente variato.

La sfida per il Drago è duplice. In primo luogo deve navigare le relazioni del continente senza restare impigliati nei suoi conflitti, sui quali Pechino non sembra avere grandi possibilità di incidere, al netto dei richiami generici alla pace e alla stabilità. Secondo, occorre poi implementare una strategia multistrumentale in un contesto in cui le istanze degli Stati africani non potrebbero essere più disparate. Soprattutto, deve farlo senza poter utilizzare in maniera ampia e spregiudicata come in passato la leva finanziaria, a causa del rallentamento della crescita economica e di un certo scetticismo da parte degli stessi alleati africani che cominciano a misurarsi con i limiti della “generosità” cinese. 

Tale seconda necessità di Pechino fornisce una chiave di lettura per comprendere la scelta dei paesi oggetto della visita. Il Ciad è uno degli Stati che a partire da quest’anno potrà esportare sul mercato cinese senza dazi in base a quanto stabilito all’ultimo vertice Cina-Africa di settembre. La Repubblica del Congo, con il suo petrolio ha assunto una rilevanza maggiore agli occhi di Pechino specialmente dopo alcune turbolenze nei rapporti con il vicino Congo democratico. La Namibia rappresenta la nuova frontiera dei materiali critici per la Cina che vorrebbe estrarre più litio, facendo leva sull’interesse namibiano per il know-how cinese sul nucleare. Infine la Nigeria. Grande malato del continente in preda a una delle crisi finanziarie più gravi della sua storia e bisognoso di liquidità.

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Al netto dell’enormità delle sfide, il tour di Wang Yi conferma la capacità cinese di intercettare le istanze del soggettivismo africano meglio di altri concorrenti. Almeno per il momento.

Per approfondire: La Cina punta sull’Africa gialla

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